Marin Sanudo voleva essere storiografo ufficiale della Serenissima ma... Pietro Bembo gli soffiò il posto
58 diari degli anni tra il 1496 e il 1533, migliaia di notizie, fatti quotidiani e politici, della Serenissima. Questa è l'opera di
Marin Sanudo detto il Giovane (1466-1536). Marino era figlio di un importante patrizio e diplomatico di rilievo, che morì nel corso di una ambasceria a Roma nel 1476. Rimasto orfano di padre trascorse l'adolescenza a Sanguinetto nel veronese, presso il castello della famiglia materna dei Venier. Sotto la protezione dello zio, Francesco Sanudo, frequentò la Scuola di San Marco e seguì le lezioni di Giorgio Merula. Appassionato di storia scrisse numerose opere,
Le vite dei dogi in tre volumi, la
Spedizione di Carlo VIII in Italia e i
Diarii, l'opera che lo rese leggendario. Per tutta la vita inseguì il sogno di diventare “pubblico storiografo” ma il 26 novembre del 1530 il Consiglio dei Dieci assegnò l'incarico a
Pietro Bembo, il quale chiese al
Sanudo di poter consultare i suoi Diarii, al rifiuto per orgoglio di quest'ultimo, il Bembo si rivolse al Consiglio dei Dieci che obbligò il diarista a lasciar libera consultazione degli scritti. A settembre del 1533 interruppe la scrittura dei diarii e il 4 aprile 1536 morirà.
Ma cosa si può leggere in questi diari? Ci racconta della peste: “
Marzo 1498 adi 17 ditto, fo brusato nel canal di San Marco per mezo di San Zorzi (San Giorgio Maggiore) una marciliana (una imbarcazione da trasporto) carga di naranze venuta di Fermo di la Marcha, dove si moriva di morbo”. O dell'acqua alta:”
16 novembre 1517, havendo piovesto la note e cussì la matina assae con grandissimo vento de syrocho, adeo la matina pocho da poi terza cresete l'aqua grandissima in questa terra […] et in mia corte, ch'è pur alta, era più di un pe' e mezo l'aqua alta.” Ma anche i fatti esterni alla città, come la condanna a morte di fra' Girolamo Savonarola: “
28 maggio 1498 menati poi nel capannucio, furono impichati, et il foco subito se accese quasi ad uno tempo. Extinto el foco et quelli brusati, alcuni frusti di corpi restavano suspexi ad cathene di ferro, et li puti li lapidavano per ludibrio”.
Testo a cura di Davide Busato di Venezia Criminale